Non chiamiamoli angeli… Sono soprattutto giovani, e tanti, che in questi giorni di lutto e tribolazione per la terra di Romagna hanno offerto le loro braccia per spalare quel fango e sversare quell’acqua che hanno invaso case ed edifici pubblici. Migliaia armati di carriole, pale, secchi e degli introvabili tira-acqua, impegnati a raccogliere i cocci di vite frantumate dagli effetti di un maltempo troppo anomalo per non essere legato al nostro modo di trattare la natura, all’inquinamento, all’innalzamento climatico, allo sfruttamento dei terreni, all’incuria delle infrastrutture.
Sono questi ragazzi i primi ad essersi resi conto che era necessario rimboccarsi le maniche nell’emergenza dell’alluvione ma in generale nella denuncia del disastro ecologico e nella ricerca di un modo nuovo di vivere la natura. Loro, da troppi definiti passivi, privi di passioni, sdraiati, “divanati” hanno assunto il compito di portare sulle spalle i padri, di fare attraversare il guado a dei genitori troppo vecchi e stanchi oppure troppo egoisti per lasciare un’eredità, per non cedere all’idea che la prossima sarà l’ultima generazione.
Michele Papi, frate cappuccino